Il Kamut, il grano dei faraoni del Montana
Di recente l’industria alimentare ha rispolverato i cosiddetti «grani antichi»,
particolari varietà o specie di grano che da decenni o secoli erano
state abbandonate dal punto di vista commerciale perché poco
remunerative. Alcuni agricoltori le hanno reintrodotte perché,
nonostante abbiano rese più basse rispetto al frumento, possono essere
coltivate in modo biologico in aree marginali e vendute a un prezzo superiore
grazie al favore che incontrano presso i consumatori. Questi mostrano
di apprezzare i grani antichi perché li percepiscono come «più naturali»
e con interessanti proprietà nutrizionali. Dal canto loro, le aziende
alimentari ne sono attratte perché consentono loro di diversificare la
produzione in base alle esigenze dei consumatori. I grissini che
acquisto io sono disponibili anche nella versione al frumento
tradizionale, che costa meno ma piace meno in casa. Pasta e nuovi
prodotti da forno (pane, biscotti, piadine, grissini ecc.) che
contengono miscele di farine si trovano in gran quantità anche nei
negozi specializzati in alimenti biologici e «naturali». Di sicuro, il
cereale che riscuote più successo di tutti è il Kamut.
La leggenda racconta che, subito dopo la seconda guerra mondiale, un pilota militare americano abbia trovato in un’antica tomba vicino a Dashare, in Egitto, una manciata di semi vecchi di quattromila anni. Nel 1949 regalò trentasei chicchi a un amico, Earl Deadman, che li spedì a suo padre, un agricoltore del Montana.
Quei semi vennero piantati e, miracolosamente, trentadue di essi
germinarono, consentendo l’avvio di una piccola produzione. Portato in
giro per le fiere agricole del Montana negli anni Sessanta come
curiosità, quel cereale con i suoi chicchi grandi (il doppio rispetto al
frumento comune) venne soprannominato «grano del faraone Tut». Nel giro di poco tempo la novità scemò e quel grano venne dimenticato.[i]
Nel 1977, i Quinn, una famiglia di agricoltori di Big Sandy nel Montana, recuperarono nello scantinato di un amico una scatola contenente quei semi, li seminarono e li moltiplicarono. Nel 1987 Bob
Quinn, il più giovane della famiglia, con un dottorato in patologia
vegetale e una buona propensione per gli affari, decise di usare un nome egizio
per dare un’identità riconoscibile a quel grano e commercializzarlo.
Consultando un dizionario dei geroglifici egizi nella biblioteca locale,
accanto alla descrizione di grano e pane trovò la parola «kamut». Il 3 aprile 1989 Quinn registrò il nome Kamut e fondò la Kamut International.[ii]
Non a caso nel marchio della società, presente su ogni confezione di
prodotti di questo tipo, compare una piramide egizia. Kamut quindi non è
il nome di una specie vegetale, ma un marchio registrato (da
qui l’uso obbligatorio del simbolo ® su tutti i prodotti che lo
contengono) che sfrutta a fini pubblicitari le sue supposte origini
egizie, il fatto di essere un «grano antico» e, come vedremo, le sue presunte qualità nutrizionali.
Una leggenda accattivante
La farina di Kamut dei miei grissini è quindi la stessa che
utilizzavano gli antichi egizi, arrivata a noi grazie a quel
ritrovamento archeologico? No. La leggenda, sicuramente accattivante, è
molto probabilmente inventata. È estremamente improbabile che dei semi possano germinare ancora dopo quattromila anni e, in più, pare che gli antichi egizi coltivassero farro e orzo. Il frumento si sarebbe diffuso in Egitto solo durante il periodo Tolemaico (332-330 a.C.).[iii]
Quando i biologi parlano di frumento, intendono più correttamente il «genere» Triticum, che comprende molte centinaia di specie diverse. Alcune le conoscete sicuramente: oltre al frumento duro (Triticum durum) con cui facciamo la pasta, e quello tenero (Triticum aestivum), più usato per il pane e la pasticceria,[iv] troviamo per esempio anche il farro (Triticum dicoccum). Nel corso dei secoli sono state coltivate in giro per il mondo, anche se non in modo così diffuso, altre specie di Triticum geneticamente simili al grano duro come il Triticum turgidum, specialmente le sottospecie polonicum e turanicum. Quest’ultimo è anche chiamato «grano orientale» o grano Khorasan, dal nome della provincia dell’Iran dove ancora oggi si coltiva. Ecco quindi spiegata l’origine di quel nome, Khorasan, sull’etichetta dei miei grissini.
Questo grano è stato descritto per la prima volta nella letteratura
scientifica nel 1921,[v] ma alcuni accenni si trovano già nel secolo
precedente. Pare che abbia avuto origine nella regione turca dell’Anatolia
e sia stato coltivato, sebbene mai in modo intensivo, in zone marginali
dell’Asia e dell’Africa settentrionale come l’Egitto, dove è ancora
possibile trovarlo al mercato. Da lì, probabilmente, una manciata di
semi è finita nel Montana. Non era quindi necessario vestire i panni di Indiana Jones
e scavare nelle tombe egizie per scovare i semi del grano Khorasan:
bastava andare al mercato, come probabilmente è successo. L’ipotesi più
accreditata è che il Kamut sia una selezione relativamente moderna
del grano orientale, e neppure la Kamut International spinge o diffonde
più la storia del ritrovamento nella tomba, anche perché ormai non ce
n’è più bisogno, data la popolarità ormai raggiunta da questo cereale.
La sua classificazione botanica precisa, così come la sua origine, è
tuttora oggetto di dibattito, e studiosi diversi lo classificano e lo
chiamano in modi diversi. Ciò è abbastanza comune nel caso del grano,
poiché spesso specie differenti possono occasionalmente incrociarsi tra
loro o scambiarsi materiale genetico, generando nuove
specie o varianti delle originali, che a loro volta si possono
incrociare, dando luogo a una rete intricata di rapporti di parentela.
Ci sono scienziati che hanno dedicato la loro vita scientifica alla
ricostruzione dell’albero genealogico del grano e, sebbene con le
moderne analisi del dna si siano fatti enormi passi avanti, il quadro
non è ancora del tutto chiaro.[vi] In ogni caso è comunque un parente geneticamente stretto del grano duro.
Uno studio dell’Università di Teramo e dell’Istituto sperimentale dei
cereali ha dimostrato che le rese produttive del Khorasan sono
tipicamente più basse e hanno una scarsa capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali rispetto ad altre tipologie di grano.[vii] In generale, a confronto con le moderne varietà, le caratteristiche agronomiche dei grani antichi paiono inferiori essendo
scarsamente resistenti a varie malattie e funghi, aspetti molto
importanti per l’agricoltore. D’altra parte questi grani sembrano più
adatti a essere coltivati in zone dove piove poco e l’irrigazione è scarsa.
Una caratteristica peculiare dei chicchi di Kamut è che sono molto
grossi, anche il doppio dei normali chicchi di grano, con un buon
contenuto di glutine e di proteine. In generale le sue caratteristiche
nutrizionali non sono molto diverse da molte varietà di grano duro, ma
il sapore è diverso: come ho detto, i miei figli preferiscono nettamente
i grissini di Kamut a quelli di frumento normale della stessa azienda.
Un marchio registrato
Il mondo dell’alimentazione è pieno di marchi aziendali, per cui non
c’è nulla da stupirsi. La cosa più unica che rara in questo caso è che
un’abile strategia di marketing ha indotto il grande pubblico ad associare il nome Kamut al grano Khosaran, e poiché il nome è un marchio registrato, nessuno lo può usare
se non alle condizioni della Kamut International. Qualsiasi
agricoltore, anche in Italia, può seminare il grano Khorasan, ma non lo
può chiamare Kamut. Il valore commerciale del suo raccolto finisce così
per essere talmente basso da non ripagare gli svantaggi della
coltivazione, tra cui principalmente le basse rese.
Nel 1990 Bob Quinn ha chiesto e ottenuto la protezione di quella
varietà vegetale registrandola all’USDA (il ministero dell’Agricoltura
statunitense) con il nome ufficiale di QK-77.[viii] A tutti gli effetti
ne è diventato il «proprietario», perché un «certificato di protezione» è una specie di brevetto
e conferisce a chi lo detiene quasi gli stessi diritti di proprietà
intellettuale. In particolare, una volta diventata «proprietaria» della
varietà QK-77, la Kamut International era l’unica titolata a commercializzarla.
Se un agricoltore avesse voluto seminare quei semi e vendere il
prodotto, non avrebbe potuto farlo senza l’autorizzazione della società e
il relativo pagamento delle royalties.
Solo le aziende autorizzate possono acquistare, commercializzare e
macinare questo cereale. La produzione del Kamut è regolata in modo
molto rigoroso e sotto lo stretto controllo dalla Kamut International: deve avvenire in modo biologico certificato
e rispettare una serie di norme.[ix] È coltivato quasi esclusivamente
nel Montana e negli stati canadesi dell’Alberta e del Saskatchewan. La
Kamut International afferma che sono stati fatti tentativi sperimentali
di coltivazione del grano orientale in Europa (e anche in Italia), ma
con poco successo sino a ora.[x]
Gli agricoltori che coltivano il Kamut sono scelti in base alle
esigenze del mercato dalla Kamut International, che vende loro i semi e
rileva il raccolto a un prezzo prestabilito, solitamente superiore a
quello del grano duro, in modo da garantire sicurezza e stabilità di
prezzi ai produttori. La società sostiene di mantenere il controllo dei
semi solo per esigenze di qualità, poiché li vende agli agricoltori
allo stesso prezzo che ha pagato loro per il raccolto l’anno precedente.
Ancora una volta non c’è nulla di strano: nonostante sia un fatto poco noto al grande pubblico, è da tempo che i vegetali si brevettano o si registrano,
almeno nei paesi occidentali, il che conferisce al titolare una serie
di diritti esclusivi per un periodo limitato, solitamente inferiore ai
vent’anni. Ora la protezione del QK-77 è scaduta e la varietà è di
pubblico dominio, un po’ come il riso Carnaroli, che
ormai tutti possono coltivare. Ma associando quel tipo di grano a un
marchio registrato, che non scade mai, Quinn si è garantito a tutti gli
effetti un monopolio perenne. Chiunque può coltivare
del grano orientale, basta che si rivolga a una delle banche dei semi
presenti in varie parti del mondo. Il problema è che nessuno vuole
comprare dei grissini di grano orientale. Tutti vogliono quelli di
Kamut.
Dal 1992 la richiesta del mercato è in continua crescita, con
incrementi annui spettacolari che superano il 70 per cento. Nel 2012 il
Kamut è stato coltivato da circa 150 agricoltori su 25.000 ettari[xi].
La Kamut International vende il suo prodotto, oltre che negli Stati
Uniti e in Canada, anche in Australia, in Giappone e soprattutto in
Europa. Nel 2010 ne ha esportate 12.000 tonnellate. Tutto il Kamut spedito in Europa arriva in Belgio e
viene commercializzato da un’unica società, la Ostara, che a sua volta
lo rivende agli acquirenti autorizzati nelle varie nazioni.
È interessante notare come l’Italia sia il più grande mercato per il Kamut,
con addirittura la metà delle vendite globali,[xii] seguita dalla
Germania. Insomma, gli italiani lo adorano. Fin qui niente di strano:
anche buona parte del grano duro che usiamo per produrre la nostra amata
pasta proviene dall’estero, specialmente dagli Stati Uniti e dal
Canada. La cosa che però stride un po’, almeno per me, è vedere il Kamut
colonizzare tutti i negozi specializzati in cibi biologici ed ecosostenibili,
naturali e a km 0. È vero che è coltivato secondo i dettami
dell’agricoltura biologica, ma per arrivare nel negozio di nicchia
italiano quel cereale ha dovuto attraversare l’oceano!
Non è certo un prodotto «locale». Il cacao e il caffè presenti sugli
scaffali arrivano anch’essi d’oltremare, spesso attraverso il circuito
equo e solidale, ma si tratta di prodotti che non possono essere
coltivati qui da noi, a differenza del grano. Per questo motivo negli
ultimi tempi il Kamut è finito nel mirino proprio di quelle associazioni
che hanno una visione etica molto rigorosa del cibo e della sua
produzione e sostenibilità, e che sono sempre più
critiche nei confronti di questo marchio. Che invece è sbarcato in
grande stile nella grande distribuzione organizzata e nei prodotti di
largo consumo. Nel mio supermercato un pacco di farina di Kamut costa
4,39 euro, più del quadruplo del suo equivalente di grano duro.
Il resto lo trovate nel libro
A presto
Dario Bressanini http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/05/20/che-ne-sai-tu-di-un-campo-di-kamut%25C2%25AE/
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